Il kimono bashofu di Okinawa

Tra l’autunno e l’inverno, quando gli alberi sono maturi, si effettua il peeling, l’ebollizione e la spaccatura della fibra per ottenere dei fili sottili. I germogli che crescono dai tagli sul lato del tronco sono preziosi e possono richiedere fino a 3 anni prima che le fibre siano pronte per essere prelevate. Una volta estratto il filo hanno inizio le operazioni di tintura, tessitura e rifinitura. Tutti i passaggi dalla coltivazione alla tintura vengono eseguiti rigorosamente a mano, senza l’utilizzo di prodotti chimici.

Si tratta di un processo estremamente lungo, poiché per produrre un solo kimono sono necessarie le fibre di circa 200 banani! A causa delle migliaia di ore di lavoro manuali necessarie, vengono prodotti circa 250 rotoli di bashofu all’anno, e il prodotto finale è perciò molto costoso: da uno a diversi milioni di yen.

Dettagli del kimono

Toshiko Taira fu la ragione del revival dell’arte del Bashofu nel Giappone del dopoguerra. Durante la guerra viaggiò come membro del corpo di volontari fino a Kurashiki, dove visitò la filanda di Ohara. Qui ebbe l’opportunità di incontrare Kichinosuke Tonomura, profondamente coinvolto nel movimento delle arti popolari, e di imparare a tessere, esperienza che la incoraggiò a proteggere e alimentare la crescita dell’industria tessile di Okinawa. Sfortunatamente i campi di banano attiravano le zanzare e al suo ritorno erano stati abbattuti: ciò nonostante le donne di Kijoka hanno continuato a lavorare duramente per salvare la produzione di fibre di banana e preservare l’arte della creazione del bashofu. Nel 1974, la “Yoshika Bashofu Preservation Society” fu designata come Importante Proprietà Culturale Immateriale, mentre la signora Toshiko Taira ricevette il riconoscimento di Tesoro Nazionale Vivente.

I panorami di Okinawa

La nobiltà, i sacerdoti e i samurai vestivano questi kimono soprattutto nell’era dello Shogunato, (dal giapponese shogun, “comandante dell’esercito”), caratterizzata da 41 dittature militari che si susseguirono dal 1192 al 1868. Il colore blu e nero era riservato alla nobiltà, il giallo e l’ocra/rosso alla casa regale del regno di Riyuku (l’antico nome di Okinawa quando era un regno indipendente), mentre al popolo era riservato un kimono a tinta unita o decorato con pattern. Le tipologie più comuni di bashofu sono i Bingata, i Kasuri e gli Hana-ori. Spesso caratterizzato da colori brillanti, il Bingata generalmente rappresenta soggetti naturali come fiori, foglie o alberi. Nell’era Ryukyu era così complesso da realizzare che solo le famiglie più abbienti potevano permetterselo, e i pattern erano tenuti sotto stretto controllo: alcuni erano riservati solo ai reali o alla nobiltà. Oggi invece tutti possono indossarlo, e spesso si trova anche sulle magliette vendute nei negozi locali. I Kasuri sono invece caratterizzati da una tessitura a trama, tecnica molto antica risalente al XII secolo, anche prima dell’ascesa del regno di Ryukyu: ancora oggi è possibile riconoscere la provenienza di un kimono bashofu kasuri osservando il tipo di intreccio dei fili. L’Hana-ori presenta intrecci complessi, spesso simili a dei fiori, una tecnica che proviene da Yomitan, nel centro di Okinawa, ed è generalmente utilizzata per oggetti più piccoli come tovagliette e fazzoletti, data l’incredibile intensità del processo di tintura e tessitura del filo. Mentre è raro trovare un vero kimono Hana-ori, è abbastanza comune vedere le minsaa, le cinture dei kimono di Okinawa, realizzate secondo questo stile. 

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Hachiko, l’amore di un cane

Ogni mattina, il cane accompagnava il padrone alla stazione ferroviaria, dove prendeva il treno per recarsi all’università di Tokyo dove insegnava. Hachiko si sedeva fuori dalla stazione e aspettava paziente il suo ritorno. Questa felice routine venne interrotta un anno dopo, quando Ueno morì improvvisamente al lavoro colpito da un ictus. Ciò nonostante ogni giorno il cane continuò ad andare alla stazione, nella speranza di rincontrare l’amato padrone, per ben 10 anni. 

Hachiko divenne così il cane più famoso del Giappone, simbolo di fedeltà e amore assoluto. Morì a 11 anni l’8 Marzo del 1935; la notizia fece il giro del Paese e venne dichiarato un giorno di lutto nazionale per ricordarlo. Inoltre, da allora ogni 8 marzo viene organizzata una cerimonia in sua memoria.

Il corpo del cane venne preservato ed esposto al Museo Nazionale di Natura e Scienza, salvo alcune ossa che furono sepolte accanto alla tomba del professor Ueno. 

Una scena dal film “Hachiko”

A Shibuya, cuore pulsante di Tokyo, si trova la statua dedicata ad Hachiko. La scultura in bronzo originale però, realizzata nel 1934 dall’artista Teru Ando, è andata persa durante la Seconda Guerra Mondiale, e adesso al suo posto vi è una copia fedele, opera proprio del figlio dello scultore.

Altre statue dedicate ad Hachiko si trovano a Odate e all’Università di Tokyo, quest’ultima raffigurante cane e padrone riuniti. 

Il cane è diventato una figura leggendaria per la sua fedeltà e devozione al padrone, simbolo dell’amore incondizionato che i cani nutrono per i loro amici umani.

Da qualche tempo però Hachiko non è più solo: infatti ai piedi della statua principale della stazione di Shibuya, tutti i giorni si rannicchia un gatto. Il micio appartiene a un uomo di Tokorazawa, che ogni volta lo lascia circa un’ora sotto la statua, in modo da dare conforto alle persone.

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Manga e Anime

In Giappone il termine manga indica i fumetti di qualsiasi target, tematica e nazionalità, mentre al di fuori del Paese esso è usato esclusivamente in riferimento ai fumetti giapponesi, anche se alcuni dei loro tratti grafici sono divenuti così caratteristici da influenzare lo stile del fumetto anche all’estero.

Questi fumetti hanno delle sostanziali differenze rispetto a quelli occidentali: innanzitutto le avventure dei manga hanno un inizio e una fine, ogni personaggio è presente solo in un’unica serie (che può protrarsi per anni) e non ne “interpreterà” altre. Inoltre il manga giapponese si legge al contrario, dall’ultima alla prima pagina. Le vignette si leggono da destra a sinistra, dall’altro verso il basso. Ci sono tuttavia delle eccezioni: alcuni manga che si leggono da sinistra a destra secondo l’usanza occidentale.

Manga giapponesi

Nel genere “rosa”, detto shyjo, per creare effetti drammatici intensi ed enfatizzare i sentimenti si eliminano le linee divisorie tra le singole vignette.

Dal punto di vista dei fumetti, i giapponesi sono molto patriottici e guardano con sospetto quelli esteri; alcune serie straniere, addirittura, sono state ridisegnate da artisti giapponesi appositamente per il loro mercato.

Tra i manga più famosi: Dragon Ball di Akira Toriyama, Ranma di Rumiko Takahashi, Akira di Katsuhiro Otomo e Monster di Naoki Urasawa.

Anime è un neologismo con cui in Giappone, a partire dalla fine degli anni ’70, si indicano l’animazione e i cartoni animati: è un genere complesso e vario che designa sia un prodotto di intrattenimento commerciale che un fenomeno culturale popolare di massa. È potenzialmente indirizzato ad ogni tipo di pubblico, dai bambini agli adolescenti agli adulti. Gli albori dell’animazione giapponese risalgono già alla fine del periodo Edo, quando alcuni pittori presero a riprodurre dettagliatamente sequenze di movimenti.

Pubblicità di anime giapponesi

Tuttavia, i veri pionieri dell’animazione giapponese furono il pittore Seitaro Kitayama e i vignettisti Oten Shimokawa e Jun’ichi Kychi, che nel 1914, basandosi su soggetti tradizionali, sperimentarono tecniche di animazione rudimentali come fotografare in sequenza disegni realizzati col gesso su una lavagna. Da qui lo sviluppo e l’espansione degli anime sono stati graduali nel tempo.

Sia il fiorente mercato dei manga sia l’avvento della televisione negli anni ’60 hanno contribuito alla nascita e alla fortuna dell’industria dell’anime moderna. Il 1° gennaio 1963, giorno della messa in onda del primo episodio della serie televisiva in bianco e nero Tetsuwan Atom (Astro Boy) può essere considerata quindi la data di nascita dell’industria moderna del cartone animato giapponese.

I personaggi degli anime sono diventati fin da subito protagonisti di pubblicità dei prodotti più disparati, garantendo alle aziende entrate ulteriori, a cui hanno attinto anche i produttori di giocattoli, soprattutto nel genere robotico, finalizzato al successivo merchandising di gadget e modellini.

A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, però, l’animazione seriale televisiva declina a causa della prepotente crescita del mercato dei videogiochi. Negli anime si trovano molti riferimenti ad elementi fondamentali del costume e della società nipponici, come le tradizioni shintoista e buddhista, il bushido e il rapporto tra uomo, natura e tecnologia. Tra gli anime più famosi: Sailor Moon, Neon Genesis Evangelion e Ken Il Guerriero.

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La birra giapponese

Le tappe successive della diffusione della bevanda sono segnate da alcune date importanti:

  • 1870: l’americano William Copeland fonda il Birrificio Spring Valley a Yamate e Yokohama. Nello stesso anno gli olandesi iniziano a importare birra in Giappone; i primi consumatori sono commercianti stranieri e pescatori.
  • 1872: Shozaburo Shibutani è il primo giapponese a produrre e vendere birra a Osaka.
  • 1876: a Sapporo, Hokkaido, viene aperto il birrificio Kaitakushi, il primo a gestione governativa.

Nel decennio successivo per la prima volta il quantitativo di birra prodotta nel Paese supera l’ammontare di birra importata; gli anni ’90 dell’800 furono caratterizzati da un periodo di prosperità per la birra in Giappone, tanto che nel 1901 il governo introdusse la Legge sulla Tassa della Birra per prevenire l’eccessiva competizione domestica, promuovere le esportazioni e concentrare il capitale.

La birra giapponese

Le varietà di birra giapponese sono suddivise in due gruppi, birra e happoshu, a seconda della quantità di malto utilizzata. Le rigorose normative giapponesi in materia di alcolici proibiscono l’uso della parola “birra” per indicare le bevande contenenti meno di 67% di malto, che sono invece appartenenti alla categoria degli happoshu. Le birre importate in Giappone sono etichettate infatti come happoshu se il contenuto di malto è inferiore ad una certa soglia. Dal 2004, le birrerie giapponesi hanno iniziato a produrre una terza tipologia di birra, a base di semi di soia e altri ingredienti, tale da non rientrare nelle due classificazioni. Questa “terza birra” rientra nelle bevande cosiddette Happousei. 

A partire dal 1994, le leggi fiscali giapponesi hanno iniziato a concedere le licenze anche alle piccole birrerie che producevano 60.000 litri all’anno, favorendo l’apertura di numerose birrerie di piccole dimensioni. Attualmente ci sono oltre 200 micro birrifici in Giappone, che producono birre ale, stout, pilsener, weizen e altri. Un problema era però quello della crescente popolarità delle happoshu a basso costo, che penalizzava le piccole realtà produttrici a favore dei colossi. Tuttavia, grazie a fattori come la licenza concessa anche a bar e catene di ristoranti e la cooperazione tra micro birrerie, l’industria è riuscita a sopravvivere. Sono molto popolari anche i festival annuali, come il Festival Ale di Tokyo e la Grande Festa della Birra a Tokyo, Osaka e Yokohama.

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Il sumo, lo sport nazionale del Giappone

L’origine di questa forma di lotta è molto antica, ma solo dall’inizio del 1600 (periodo Edo) è diventato uno sport professionistico.

Le regole sono molto semplici: la vittoria spetta al lottatore che atterra o riesce a spingere all’esterno del dohyo l’avversario. Gli incontri possono durare da pochi secondi fino a parecchi minuti. Esistono una settantina di tecniche da poter utilizzare, alcune riguardano il sollevamento o la spinta fuori dal dohyo, altre varie prese e sgambetti. Sono permessi schiaffi con la mano aperta ma solo sulla parte superiore del corpo, non si possono dare pugni, calci e tirare i capelli.

I lottatori sono detti rikishi, e sulla loro bravura si basano le categorie; la più importante è la Yokozuna, a cui appartiene un solo lottatore, il migliore.
Da questa categoria non si può retrocedere: quando il lottatore ritiene di non essere più in grado di competere e vincere, spontaneamente si ritira, cedendo il posto ad altri aspiranti.
Annualmente si svolgono 6 tornei dalla durata di 15 giorni ciascuno. Ogni lottatore ha in programma un incontro giornaliero. Il torneo è vinto dal rikishi che si è aggiudicato il maggior numero di incontri. Con 8 incontri vinti il lottatore sale di categoria, con 8 persi retrocede alla categoria più bassa. Al termine di ogni torneo si stila la classifica, detta banzuke.

Un incontro di sumo

Prima e dopo il combattimento vengono svolti vari rituali che hanno un profondo legame con le antiche tradizioni:

  • Il Makuuchi dohyohiri – Presentazione al pubblico di tutti i lottatori.
    I rikishi salgono sul dohyo per le pubbliche presentazioni. Il rituale prevede un cerimoniale eseguito con movimenti molto particolari delle braccia e gesti scaramantici. I rikishi indossano un grembiule (kenshomawashi) con colori e simboli che li rappresentano.
  • Lo Yokozuna dohyohiri – Apertura combattimenti
    Il primo passaggio è l’entrata dei lottatori, che si posizionano sul dohyo.
    L’apertura dei combattimenti ha ufficialmente inizio solo dopo l’ingresso dello Yokozuna e lo svolgimento del rituale propiziatorio.
  • Il lancio del sale – Prima dell’incontro
    I rikishi compiono un gesto scaramantico a protezione da infortuni, ferite e cadute.
    Da ciotole apposite viene raccolta una manciata di sale, poi gettata sul dohyo.
  • Lo Shiko
    Movimento eseguito dai lottatori: la gamba viene alzata e portata quasi in posizione verticale e poi si compie un movimento opposto portandola verso il basso, sbattendo a terra il piede, così da produrre un forte rumore. È un movimento preparatorio, ma viene utilizzato soprattutto come rito scaramantico per scacciare gli spiriti cattivi dal dohyo.
  • Danza con l’arco – Fine del torneo
    La danza con l’arco svolta da un giovane rikishi, alla fine del torneo, è un rituale che ha più valenze, simboleggia la forza e la vittoria (un arco era il dono ricevuto dal vincitore) ma anche felicità e prosperità.
I rituali di un incontro di sumo

Se siete in Giappone non potete non assistere a un incontro di sumo! I tornei, in particolare, si svolgono a Tokyo nei mesi di gennaio, maggio e settembre, a Osaka nel mese di marzo, a Nagoya a luglio e a Fukuoka nel mese di novembre.

Nel quartiere di Ryogoku, a est di Akihabara, si trova il Kokugikan, la palestra di sumo più famosa di tutto il Giappone. Ci sono palestre anche in altre città, ma sia per il fascino che per la comodità, è preferibile venire qui per assistere a un incontro. Per completare l’esperienza vi consigliamo di mangiare un Chanko Nabe, ciò che mangiano i lottatori di sumo, in uno dei tanti ristoranti specializzati del quartiere, come Tomegata, o ancora meglio Kapou Yoshiba, dove è possibile cenare e allo stesso tempo assistere a piccolo incontro di sumo dal vivo. 

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Il baseball, lo sport più amato dai giapponesi

La vittoria americana sul Giappone nella cosiddetta Guerra del Pacifico, durante la Seconda Guerra Mondiale, con la conseguente occupazione militare, fece sì che il baseball si radicasse ancor più nel Paese del Sol Levante fino a diventare il nuovo sport nazionale e veder nascere la prima squadra professionistica nel 1934, gli Yomiuri Giants, seguita dalla Nippon Professional Baseball nel 1950. 

Un successo senza dubbio legato alla concentrazione e allo spirito di squadra richiesti, caratteristiche molto apprezzate dai giapponesi. Le squadre di baseball giapponesi non hanno nulla da invidiare a quelle americane. Nel 2006 e nel 2009 esce vincitore dalla World Baseball Classic. La squadra femminile di baseball giapponese vince anch’essa due volte la Coppa del Mondo (nel 2008 e nel 2010).

Attualmente in Giappone ci sono due campionati professionistici, quello della Central League e quello della Pacific League, nei quali si affrontano sei squadre ciascuno da fine marzo ad ottobre. A fine stagione le squadre vincitrici del proprio campionato si affrontano in una serie di sette partite, e quella finale decreta il campione del Giappone. 

Il Tokyo Dome Stadium

Camminando per le strade di qualsiasi città giapponese, accanto ad ogni scuola c’è sempre un campo da baseball nel quale gli studenti si allenano; inoltre è normalissimo vedere per strada ragazzini con mazze e guantoni pronti per giocare. L’attività sportiva è molto importante per la formazione del carattere del giovane giapponese e sicuramente il baseball, che è uno sport di squadra, è stato molto incoraggiato, come è avvenuto per il calcio da noi occidentali.

Se oggi la popolarità del calcio comincia, se non a sostituire, almeno a rivaleggiare quella del baseball, i tornei di primavera e d’estate della Nippon Professional Baseball sono sempre molto seguiti. Dal mese di aprile al mese di ottobre si può misurare la passione giapponese per il baseball, tradotta da una gioiosa e rumorosa atmosfera, durante gli incontri al Tokyo Dome Stadium. 

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Hanabi: i fiori di fuoco

Non tutti sanno che i fuochi hanno un’origine simbolica: i primi infatti sono stati sparati nel 1733 nei pressi del fiume Sumida, per commemorare le vittime della carestia che aveva colpito la città. Da allora gli hanabi hanno lo scopo di dare pace alle anime dei defunti e di scacciare la sfortuna dalla città. In Giappone le principali famiglie produttrici di fuochi d’artificio erano due, i Kagia e i Tamaya, sempre in competizione. Le folle urlavano “Tamaya” o “Kagia” a seconda dei fuochi che preferivano, finché un hanabi dei Tamaya appiccò un incendio e la famiglia fu allontanata dalla futura Tokyo. 

Nel tempo poi le due esclamazioni si sono fuse ed oggi, allo scoppiettare degli hanabi si leva alto il grido “Tamaya Kagia!”.

I fuochi del fiume Sumida-gawa a Tokyo

I fuochi più famosi sono quelli del fiume Sumida-gawa a Tokyo e quelli dell’Isola di Miyajima nella provincia di Hiroshima. I primi sono i più antichi e tradizionali della capitale, in cui, l’ultimo sabato di luglio, vengono lanciati circa 20.000 razzi; i secondi sono conosciuti in tutto il mondo e sono lanciati dal mare, da dietro il Torii del Santuario shintoista di Itsukushima-jinja, per uno spettacolo davvero imperdibile!

Altri festival hanabi degni di nota sono:

  1. il Natsu Ichiban Hanabi di Nagasaki, all’interno del parco a tema Huish Ten Bosch, il più grande del Giappone. 
  2. Il carnevale estivo di Ashiya, vicino alla città portuale di Kobe;
  3. Il millenario festival Tenjin nel Kansai, dedicato a Sugawara Michizane, dio della calligrafia e dell’apprendimento; 
  4. Il Jinguu Gaien Hanabi Taikai, nel parco Gaien a Shinjuku, generalmente alla fine di agosto; 

Quindi, se avete in programma una vacanza estiva in Giappone, gli hanabi sono un’attrazione che non potrete perdervi; se invece non l’avete ancora in programma, è una motivazione in più per farci un pensierino!

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Due bottiglie di una bevanda giapponese

Perché il sakè è la bevanda più iconica del Giappone?

Oggi la fermentazione del riso viene affidata a una muffa chiamata kojikin, mentre prima era iniziata con tecniche più arcaiche, come la masticazione. Prima di tutto il kojikin viene fatto moltiplicare su un letto di riso cotto al vapore, producendo così il komekoji (riso maltato), al quale vengono aggiunti altro riso cotto al vapore e acqua per formare lo shubo (la pasta madre). Riso cotto al vapore, riso maltato e acqua vengono aggiunti a più riprese, in un processo di fermentazione a tre stadi chiamato danjikomi.

Finito il processo, il sakè viene filtrato, pastorizzato a bassa temperatura, riposto e invecchiato. Il progresso tecnico ha continuato a evolversi fino al XVIII secolo, quando si giunse a uno stile molto simile a quello odierno. Fatte le premesse, vediamo insieme quali sono i fattori che rendono il sakè la bevanda nazionale del Giappone.

Diverse varietà di sakè

Regione che vai, sakè che trovi

Le diverse condizioni climatiche del Giappone influenzano i prodotti agricoli e marini e di conseguenza la cucina varia in sapore, condimenti e metodi di cottura da regione a regione, rispecchiando la diversità ambientale del Paese. Le oltre 100 aziende di tutto il Paese che producono sakè devono adattarlo alla cucina locale, con caratteristiche diverse a seconda della regione per adattarsi a stili di vita e di alimentazione locali. Anche le stagioni influenzano il sakè per tipologia e maniera di berlo: in autunno c’è lo hiyaoroshi, maturato nel corso dell’estate, mentre durante l’inverno si beve lo shiboritate e in estate il namazake freddo da frigorifero. Inoltre il Giappone celebra il cambio delle stagioni con una cerimonia detta sekku, in cui era consuetudine far galleggiare i fiori di stagione nel sakè, per poterli ammirare prima di berlo in modo da allontanare le influenze nocive e augurarsi una lunga vita. Si usavano fiori di pesco a marzo, iris a maggio, crisantemi a settembre.

Si sposa bene con la cucina giapponese

Gli ingredienti più usati nella cucina nipponica sono la salsa di soia, l’aceto di riso e il sakè dolce da cucina, fermentati facendo uso di riso maltato; inoltre il pesce, tanto amato dai giapponesi, è ricco di calcio e minerali, ai quali il sakè si accompagna bene. Tutti questi fattori rendono la bevanda ottima per la cucina giapponese. 

Il legame del sakè con la cucina locale

È profondamente legato alle cerimonie tradizionali

Fin dall’antichità si ringraziavano gli dei per l’abbondante raccolto usando quello stesso riso per produrre una bevanda da offrirgli. Le offerte fatte agli dei variavano di regione in regione, ma il più delle volte si trattava di sakè da riso fermentato, riso lavato e cotto al vapore o tortini di riso cotto e pestato. La tradizione di invitare gli dei, offrire loro sakè e consumarlo perdura ancora oggi in queste cerimonie religiose.  

Serve per celebrare l’inizio di una relazione importante

Fra le varie cerimonie c’è la san-sa-kudo, nella quale il sakè viene versato in tre tazze di dimensioni diverse e si bevono tre sorsi da ciascuna. Il numero tre è ritenuto fortunato. Questa cerimonia è effettuata quasi sempre mentre si fanno voti agli dei. L’espressione “scambiarsi le tazze del sakè” equivale a “stipulare un contratto” nelle lingue europee, mentre “bere sakè insieme” indica una relazione informale ma di grande forza. 

Sakè nella tradizione giapponese

È anche importante come regalo da scambiarsi

Prima di tutto è essenziale come offerta agli dei, come ringraziamento per i giorni di sole e per i benefici goduti. Ma è anche offerto nel caso di lutti o sfortune a indicare compartecipazione, o come ringraziamento per favori ricevuti. 

Tutti questi motivi fanno del sakè la bevanda nazionale del Giappone: è fatto con acqua e riso, le due fortune che la natura ha regalato al Paese, viene fermentato con una muffa presente esclusivamente in Giappone, viene consumato sin dall’antichità, ha forti legami con religione, cultura, riti e abitudini dei giapponesi ed è prodotto in tutto il Paese.

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Un dipinto di una donna giapponese

Il fascino della geisha

La geisha è una tradizionale intrattenitrice e artista giapponese, la cui figura era molto diffusa nel XVIII e XIX secolo e che ora sta via via scomparendo. Sono donne particolarmente abili nella musica, nel canto e nella danza. Le prime geishe vere e proprie comparvero intorno al 1600 come cortigiane che intrattenevano i nobili durante le feste dell’alta società. Quando nel 1617 la prostituzione divenne legale in Giappone, bordelli e case di piacere cominciarono a diffondersi nelle città principali e la figura della geisha cominciò a confondersi con quella di prostituta. Nel XIX secolo furono emanate delle leggi che vietavano alle geishe di esercitare la prostituzione e nelle città più importanti, specialmente Tokyo e Kyoto, alcuni interi quartieri furono destinati alle case da tè (ochaya) e alle abitazioni delle geishe (okiya).

Lo spettacolo di una geisha

La preparazione per diventare una geisha iniziava fin dalla tenera età: quando arrivavano nella okiya, la “casa delle geishe”, le ragazzine imparavano tutti i segreti delle attività domestiche e di intrattenimento, come suonare gli strumenti tradizionali, danzare, cantare e servire correttamente tè e sakè.

Superato un esame di danza, si accedeva al secondo livello di apprendistato: la scelta del kimono, la tecnica per indossarlo e come intrattenere i clienti. Si arrivava così al terzo livello, in cui l’aspirante geisha seguiva la “sorella maggiore” in tutti i suoi impegni, imparando in particolare l’arte della conversazione, per diventare una maiko (apprendista) a tutti gli effetti, scegliersi un nome d’arte ed esercitare la sua attività. Dopo un periodo massimo di cinque anni, la maiko diventava finalmente geisha, un titolo che manteneva fino al suo ritiro e che tramandava di generazione in generazione. Questo processo di formazione è sancito nel kenban, una sorta di albo professionale che obbliga le geishe a seguire precise regole di abbigliamento e stile di vita, ed è in vigore tutt’oggi.

L’abbigliamento e l’acconciatura tradizionale di una geisha

Se vi state chiedendo dove poter incontrare una geisha durante il vostro viaggio, la risposta è al quartiere di Gion, detto appunto “quartiere delle geishe”. Si trova a Kyoto, ed è una delle tappe imperdibili per i viaggiatori appassionati di cultura e tradizioni giapponesi: qui il tempo sembra essersi fermato e la figura della geisha, nonostante stia lentamente scomparendo, continua a esercitare un grande fascino sui visitatori. Nel quartiere si trovano ancora le dimore tradizionali giapponesi e le famose case da tè, dove un tempo uomini d’affari e samurai si facevano intrattenere dalle geishe. Quelle di Kyoto sono dette geiko, “donna d’arte” nel dialetto locale. Ancora oggi ad aprile le geiko di Gion Kobu si esibiscono nella Miyako Odori, o “danza dei ciliegi in fiore”, manifestazione molto amata dai viaggiatori in visita. 

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Armatura di un samurai del Giappone antico

Chi erano i samurai?

Ma cosa distingueva questi nobili guerrieri dagli altri? Innanzitutto il Bushido, il codice etico che fissava regole e comportamenti che i samurai dovevano seguire, soprattutto la fedeltà assoluta verso il padrone, la continua ricerca dell’automiglioramento, il rifiuto del fallimento e la forza di volontà. Questi aspetti venivano spinti all’estremo, fino al suicidio: se un samurai commetteva un grave errore, per recuperare la propria rispettabilità e il proprio onore poteva ricorrere al seppuku (o harakiri, “taglio del ventre”), un suicidio rituale che andava eseguito con un taglio a L con la katana o un pugnale corto. Questo perché il ventre era ritenuto la sede dell’anima: squarciarlo davanti a fidati testimoni equivaleva a dimostrare che la propria fosse pulita. 

La statua di un samurai

Tra le armi più utilizzate dai samurai, la più famosa è la katana, ma quando non erano in battaglia i guerrieri portavano con sé una piccola spada chiamata wakizashi; anche l’arco asimmetrico rientrava nell’arsenale di questi nobili militari, talvolta superando per importanza la katana. 

L’armatura era ampiamente decorata, soprattutto il casco, che metteva in risalto il guerriero durante la battaglia celebrando le sue doti; ogni casco aveva delle corna, simili a quelle di un cervo, che simboleggiavano la tenacia del samurai e il suo coraggio di fronte al pericolo della morte. Le decorazioni presenti sul resto dell’armatura, invece, simboleggiavano l’appartenenza a un elevato rango sociale. Questa era parecchio costosa, per via dei materiali impiegati (pelle, ferro e acciaio) e dell’elaborato processo di lavorazione, che la rendeva resistente non solo a lame e coltelli, ma anche a lance e frecce. 

I dettagli dell’armatura di un samurai

Le mogli dei samurai ricoprivano un ruolo chiave: venivano scelte a tavolino e dovevano essere di nobili origini o, in caso contrario, potevano essere “acquistate” facendole “adottare” da una famiglia di samurai prima delle nozze. Nel Giappone medievale le donne potevano addirittura essere samurai: educate ai valori del Bushido e alle arti marziali fin da piccole, difendevano le terre del proprio signore quando gli uomini erano in battaglia o badavano ai propri possedimenti.

Contrariamente a quanto si pensa, il fatto che i samurai appartenessero alla classe sociale più elevata non significava che fossero ricchi. Il loro stipendio infatti si limitava a una paga in riso puramente simbolica e per questo, per mantenere il proprio status sociale senza perdere la faccia, i samurai che non erano già ricchi di famiglia si arrangiavano come potevano con lavoretti secondari.

Una katana

A fronte di una vita di stenti, i samurai avevano però diversi privilegi. Uno di questi era la possibilità di avere un cognome, che la gente comune in Giappone non aveva (e che conquistò solo a fine Ottocento, con il declino del Giappone feudale). Altro privilegio era quello del kirisutegomen, ossia l'”autorizzazione a tagliare e abbandonare”: il samurai poteva cioè passare a fil di spada chiunque ritenesse gli avesse mancato di rispetto, se di rango inferiore. 

Tra il XV e XVI secolo la figura del samurai raggiunse la sua massima importanza, in un periodo in cui guerre, battaglie e lotte interne erano molto frequenti; durante la fase finale dell’800, la classe dei samurai venne abolita per essere sostituita da un esercito nazionale.

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